La portaerei Uss Gerald Ford (con a bordo oltre 4.000 militari e 50 cacciabombardieri) si appresta a raggiungere l’imponente flotta statunitense, composta da cacciatorpediniere, incrociatori e sottomarini a propulsione nucleare, schierata nelle acque del Mar dei Caraibi prospicienti le coste del Venezuela.

Le dichiarazioni formulate dai portavoce del governo di Washington, inclini a iscrivere questo poderoso schieramento di forze nel contesto di un’operazione di contrasto al narcotraffico, sono risultate fin da subito assai poco convincenti.
Per un verso, per la totale assenza di prove a supporto della tesi avanzata dall’amministrazione Trump secondo cui le imbarcazioni colpite dalle azioni offensive statunitensi nelle acque antistanti le coste venezuelane (circa una trentina i morti registrati finora) fossero effettivamente coinvolte nel traffico di droga diretto verso gli Stati Uniti.
Dalla Joint Task Force al Nobel alla Machado: il Venezuela nel mirino
Per l’altro, a causa della costituzione di una Joint Task Force (Jtf) affiancata alla II Marine Expeditionary Force (II Mef) e facente capo al SouthCom, incaricata di «sincronizzare e potenziare gli sforzi antidroga in tutto l’emisfero occidentale. La Jtf integrerà le capacità di spedizione della II Mep e i partner inter-agenzia statunitensi, rappresentati dalla Homeland Security Task Force».
Nelle acque internazionali prospicienti le coste venezuelane, l’amministrazione Trump ha disposto il più massiccio dispiegamento di forze mai registrato dalla “crisi dei missili” di Cuba del 1962, clamorosamente sproporzionato rispetto all’obiettivo dichiarato di contrastare efficacemente il narcotraffico.
Il tutto mentre Maria Corina Machado, recentissimamente insignita del Premio Nobel per la Pace, continua a invocare l’intervento volto al cambio di regime, promettendo come contropartita per gli Stati Uniti il pieno accesso alle immense risorse naturali venezuelane, a partire dagli oltre 302 miliardi di barili di petrolio di riserve accertate. Nello specifico, la Machado è una storica esponente della dissidenza venezuelana in qualità di esponente di spicco di Súmate, Ong beneficiaria dei finanziamenti del National Endowment for Democracy e coinvolta nel tentato golpe contro Hugo Chavez dell’aprile 2002.
Le esortazioni rivolte esplicitamente dalla Machado nei confronti di Trump avvalorano le “voci di corridoio” giunte per vie traverse – o lasciate deliberatamente trapelare – alla grande stampa statunitense. Stando a quanto riportato dal «New York Times» sulla base delle confidenze rese dalle solite fonti anonime di alto livello all’interno del governo Usa, l’amministrazione Trump avrebbe autorizzato la Cia a condurre “azioni letali” in Venezuela con l’obiettivo finale di «cacciare Maduro dal potere», nell’ambito di un’operazione di cambio di regime che conduca allo smantellamento definitivo della rete di potere bolivariana allestita sotto la guida di Hugo Chavez.
Secondo un altro pezzo del «New York Times», l’amministrazione Trump sta attualmente vagliando diverse opzioni, che includono: attacchi aerei contro infrastrutture militari e raggruppamenti di forze: operazioni delle forze speciali per arrestare Maduro; acquisizione del controllo dei giacimenti petroliferi venezuelani. Washington, scrive il quotidiano, «sta lavorando per classificare Maduro come un “narco-terrorista” al fine di aggirare le restrizioni legali contro le azioni mirate contro i capi di Stato stranieri […]. Trump è tuttavia tentennante rispetto all’invio di truppe statunitensi». Durante un’intervista rilasciata alla «Cbs», il senatore repubblicano della Florida Rick Scott ha dichiarato che, «se fossi Maduro, scapperei in Russia o in Cina. I suoi giorni sono contati. Qualcosa sta per accadere, o dall’interno, o dall’esterno».
Il problema, per l’amministrazione Trump, è che tanto una “semplice” campagna di bombardamenti quanto una invasione su vasta scala richiedono interventi successivi volti alla stabilizzazione del Paese, e celano una vasta gamma di insidie, vista la conformazione geografica, le alleanze internazionali e le capacità di resistenza del Venezuela.
Già nel XIX Secolo, le forze irredentiste venezuelane affrontarono la lotta per l’indipendenza dalla Spagna con una determinazione tale (più del 30% della popolazione fu sterminata nell’ambito della guerra anticoloniale) da spingere il padre della patria Simón Bolívar a definire il suo Paese uno Stato-caserma.
Tale caratteristica si ravvisa ancora oggi, dal momento che Caracas può contare non solo su decine e decine di migliaia di effettivi, ma anche sull’estesissima rete di paramilitari inquadrata nei colectivos, oltre che su una vasta costellazione di gruppi paramilitari e gang criminali su cui far eventualmente leva in chiave difensiva.
Un’aggressione esterna potrebbe inoltre – analogamente a quanto accaduto in Iran durante la “guerra dei 12 giorni” contro Israele – ricompattare improvvisamente il Paese, che non presenta fratture etniche e religiose paragonabili a quelle che lacerano i Paesi del Medio Oriente, spingendo le forze fedeli alla struttura di potere bolivariana a trascinare i militari statunitensi in una logorante guerriglia paragonabile a quella combattuta dai vietcong a cavallo tra gli anni ’60 e ’70; una situazione certamente non nuova in America Latina.
Allo stesso tempo, un intervento diretto farebbe piombare il Venezuela in una situazione simile a quella dell’Afghanistan o dell’Iraq, dove gli Usa, caricatisi delle responsabilità politiche derivanti dall’occupazione, si sono visti costretti a mantenere per lunghissimo tempo una presenza militare destinata ad assorbire enormi risorse economiche. Un attacco contro il Venezuela seguito da un’occupazione militare implicherebbe l’accumulo di un ulteriore fardello – sia in termini finanziari che di vite umane – che gli Usa non sono nelle condizioni di sostenere.
Un impegno di questa portata danneggerebbe per di più la non elevatissima reputazione internazionale degli Stati Uniti. Specialmente in America Latina, dove riaccenderebbe inesorabilmente il persistente risentimento nei confronti dei gringos, ma anche all’interno degli stessi Stati Uniti, dotati di una nutritissima componente ispanica particolarmente cospicua all’interno delle forze armate.
Tiziano Ciocchetti

Storico e analista militare specializzato in armamenti sia nazionali che esteri.
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