Mentre l’Unione Europea porta avanti il suo confronto a distanza con Pechino, la tregua commerciale di un anno raggiunta recentemente tra Stati Uniti e Cina ha provvisoriamente stemperato una situazione che stava facendosi piuttosto preoccupante. Ai dazi iperbolici statunitensi, Pechino aveva reagito imponendo controlli senza precedenti sull’export delle terre rare.
Gli effetti di un simile provvedimento si sarebbero rivelati assolutamente dirompenti, alla luce del predominio praticamente incontrastato che la Cina detiene nel settore.

Il segretario al Tesoro Bessent, dal canto suo, tradì palese inquietudine dichiarando che «non ci sono dubbi: questa misura pone la Cina contro il resto del mondo», incentivando un disaccoppiamento generalizzato.
Allo stesso tempo, l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni contro le compagnie petrolifere Rosneft e Lukoil. L’obiettivo dichiarato consiste nel forzare Cina e India, principali acquirenti di greggio russo, a sospendere le importazioni così da privare Mosca dei proventi necessari a finanziare lo sforzo bellico in Ucraina. Nello specifico, spiega il segretario al Tesoro Bessent, si tratta di punire «il rifiuto del presidente Vladimir Putin di porre fine a questa guerra insensata, colpendo le due maggiori compagnie petrolifere che finanziano la macchina bellica russa in Ucraina. Incoraggiamo i nostri alleati a unirsi a noi e ad aderire a queste restrizioni».
Prevedibilmente, le nuove sanzioni hanno impresso una poderosa e immediata spinta al prezzo del petrolio, come certificato dalla crescita vigorosa delle quotazioni del Brent del Mare del Nord, del West Texas Intermediate statunitense e dell’Urals russo.
Analogamente a quanto verificatosi sulla scia delle misure punitive imposte a suo tempo dall’amministrazione Biden contro Gazprom Neft e Surgutneftegas, la rivalutazione della materia prima innescata dalle sanzioni va a compensare la riduzione quantitativa dell’export che ne deriva.
Lo dimostrano i dati forniti dal Ministero delle Finanze di Mosca, da cui emerge che, a dispetto delle sanzioni, la Russia ha ricavato nel 2024 entrate dalla vendita di petrolio e gas del 26% superiori rispetto all’anno precedente, ovviando alla caduta del 24% su base annua registrata nel 2023.
Il rialzo dei prezzi del petrolio stimolato dalle sanzioni risulta pienamente confacente con gli interessi riconducibili ai produttori di idrocarburi non convenzionali statunitensi, che necessitano di un break even piuttosto elevato (65-70 dollari per barile) e costituiscono uno dei bacini elettorale di riferimento più rilevanti per Trump.
Il quale rischia in compenso di inimicarsi il favore dei consumatori statunitensi, per i quali la rivalutazione del prezzo del petrolio si traduce in un aumento del costo del carburante sempre più difficile da sostenere, come certificato dall’aumento costante del debito delle famiglie.
Lo ha sottolineato lo stesso Putin, secondo cui le misure punitive appena irrogate rappresentano «un atto ostile che potrebbe ritorcersi contro, facendo impennare i prezzi globali del petrolio», già sospinti verso l’alto dalla “strana” catena di esplosioni registrate a brevissima distanza di tempo una dall’altra presso ben tre raffinerie dell’Europa orientale che processavano idrocarburi russi. La Russia, ha spiegato il leader del Cremlino, risentirà dei provvedimenti statunitensi diretti contro Rosneft e Lukoil, ma l’impatto sull’economia nazionale risulterà scarsamente significativo.
L’Unione Europea impone nuove sanzioni contro la Russia
D’altro canto, l’Unione Europea ha irrogato il 19° pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa, sotto molti aspetti complementare rispetto ai recentissimi provvedimenti statunitensi. Secondo i rappresentanti danesi che occupano la presidenza di turno dell’Unione Europea, quello appena approvato rappresenta «un pacchetto significativo, che mira a colpire le principali fonti di entrate russe attraverso nuove misure in ambito energetico, finanziario e commerciale».

La nuova tornata di sanzioni dell’Unione Europea ha aperto il varco al disegno di legge predisposto dal Consiglio d’Europa che affida alla Commissione Europea il compito di fornire le basi giuridiche per l’erogazione di una linea di credito a favore di Kiev da 140 miliardi di euro garantita dagli asset pubblici russi sottoposti a congelamento dal marzo 2022. Si parla di 185 miliardi di dollari di beni depositati soltanto in Euroclear, società di compensazione finanziaria con sede in Belgio la cui affidabilità risulta strettamente vincolata all’osservanza del principio di neutralità e delle norme giuridiche vigenti in materia di custodia dei titoli.
L’irremovibilità del primo ministro belga De Wever – definito un “bad boy” dalla rivista «Politico» per via del suo “ostruzionismo” – ha fin da subito palesato la conclamata indisponibilità alla condivisione dei rischi da parte di diversi Stati dell’Unione Europea, i quali hanno invocato «rassicurazioni sulla solidità giuridica dello schema» predisposto dalla Commissione Europea, accusata di aver «sottovalutato la complessità tecnica e legale dell’operazione», in linea con la posizione assunta dalla Banca Centrale Europea dichiaratasi «preoccupata per le implicazioni sulla credibilità dell’euro come valuta di riserva mondiale».
Verso la confisca dei beni russi da parte dell’Unione Europea?
Come si legge all’interno della dichiarazione finale del summit del 23 ottobre, sottoscritta da 26 dei 27 leader europei (Ungheria astenuta), «il Consiglio d’Europa invita la Commissione a presentare, il prima possibile, proposte di sostegno finanziario basate su una valutazione delle necessità dell’Ucraina, e invita le parti coinvolti a portare avanti i lavori affinché il Consiglio d’Europa possa tornare su questa questione nella sua prossima riunione», prevista per dicembre.
Permane, nel documento, il passaggio alquanto vago secondo cui: «fatto salvo il diritto dell’Unione Europea, i beni della Russia dovrebbero rimanere congelati fino a quando Mosca non porrà fine alla sua guerra di aggressione contro l’Ucraina e non verserà i danni causati dalla sua guerra».
Michele Geraci

Ingegnere ed economista con trascorsi in diverse banche d’affari. È stato direttore della sezione dedicata alla Cina del Global Policy Institute di Londra, docente di finanza presso la New York University a Shanghai e la Zhejiang University ad Guangzhou e sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico italiano.
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