Nei giorni scorsi, il presidente Trump ha celebrato il successo conseguito nelle elezioni di medio termine argentine dal partito La Libertad Avanza (Lla), del presidente Javier Milei. La compagine guidata da Milei ha superato le aspettative, ottenendo oltre il 40% dei voti, contro il 31% registrato dall’opposizione peronista Fuerza Patria. Il partito di Milei dispone ora di 80 deputati su 257 nella Camera Bassa e 18 senatori sui 72 complessivi. Milei non ha ancora la maggioranza di governo, anche considerando gli altri partiti che lo appoggiano, ma ha voti sufficienti per sostenere veti presidenziali.
Il sostegno statunitense a Milei
Una delle ragioni fondamentali alla base del successo di Milei, largamente imprevisto dai principali sondaggi, va indubbiamente individuata nel sostegno economico statunitense. Nelle settimane precedenti al voto, la Banca Centrale argentina si era vista costretta ad attingere pesantemente alle proprie riserve di valuta pregiata per per difendere il peso.
Grazie all’intervento del Dipartimento Tesoro statunitense, che ha fatto incetta di peso per mantenerne il tasso di cambio entro le bande di oscillazione prefissate, è stata scongiurata una devastante crisi valutaria destinata quasi certamente a trascinare nuovamente il Paese verso il default da debito estero. L’appoggio di Washington ha indubbiamente contribuito ad assicurare la vittoria elettorale di Milei, dal momento che gli argentini hanno saggiato più volte sulla propria pelle i contraccolpi delle crisi finanziarie. Soltanto negli ultimi 25 anni, il tasso di cambio del peso con il dollaro è passato da 1:1 a quasi 1500:1, con bancarotte in sequenza.
Alla vigilia delle elezioni, per di più, il presidente Trump aveva specificato che il pacchetto di aiuti statunitensi erogato a favore dell’Argentina era subordinato alla vittoria politica del presidente Milei. «Se il presidente [Milei] perde, non saremo generosi con l’Argentina», aveva dichiarato esplicitamente Trump provocando pesanti proteste da parte delle forze d’opposizione che hanno parlato di «estorsione al popolo argentino».
l’Unione Europea, nel frattempo, ha approvato il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia. Le nuove misure punitive si concentrano sul settore energetico e bancario. La stessa Unione Europea ha invece evitato di procedere alla confisca e al riutilizzo, sotto forma di prestiti all’Ucraina, dei beni di proprietà della Bank of Russia depositati presso istituzioni finanziarie europee.
Ciononostante, scrive la rivista «Politico», i vertici dell’Unione Europea stanno cercando di creare consenso attorno alla confisca dei beni russi. L’idea è quella di spingere i governi riluttanti a un radicale riposizionamento. Non sussistono quindi, nell’ottica della Commissione Europea, soluzioni alternative per assicurare adeguato sostegno all’Ucraina. «Quei 140 miliardi di euro di beni russi rappresentano un ammontare colossale di denaro che dobbiamo usare. Siamo chiamati a dimostrare che non abbiamo paura», ha pertanto affermato Karel Lannoo dell’influente think-tank con sede a Bruxelles Centre for European Policy Studies.
Parallelamente, gli Stati Uniti hanno imposto misure punitive nei confronti delle compagnie petrolifere russe Rosneft e Lukoil. Senza però, a quanto pare, ottenere l’auspicata interruzione degli acquisti via mare di petrolio russo da parte di India e Cina. Paesi, questi ultimi, che sembrano invece orientati a consolidare le relazioni con Mosca.
In compenso, l’amministrazione Trump è riuscita a concordare con Pechino una tregua commerciale della durata di un anno, che stabilizza i rispettivi regimi tariffari, riattiva le importazioni cinesi di soia statunitense e sospende la restrizioni sull’impiego delle terre rare di provenienza cinese precedentemente imposte dall’ex Celeste Impero.
Alessandro Volpi
Trump punta a esportare il “modello Milei” in Europa 4