Conformemente alla visione protezionista che lo caratterizza, il presidente Trump ha imposto misure tariffarie particolarmente incisive a 360°. Si parla del 49% sulle importazioni cambogiane, del 46% su quelle vietnamiti, del 37% su quelle bengalesi, del 36% su quelle thailandesi, del 34% su quelle cinesi, del 32% su quelle taiwanesi e indonesiane, del 31% su quelle svizzere, del 30% su quelle sudafricane, del 25% su quelle sudcoreane, del 24% su quelle giapponesi, del 20% su quelle provenienti dall’Unione Europea. Anche Paesi strettamente alleati come Israele sono stati colpiti, mentre a Gran Bretagna, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Singapore, Canada, Messico, Stati sudamericani e perfino Russia è stato riservato un trattamento di favore. Il criterio adottato dall’amministrazione Trump per definire l’entità dei dazi consisterebbe nel rapporto tra deficit commerciale statunitense nei riguardi del singolo Paese in oggetto e ammontare complessivo delle esportazioni che quest’ultimo realizza verso gli Stati Uniti. La cifra che scaturisce da questa semplice divisione, identificata da Washington come la barriera illegittima imposta nei confronti delle esportazioni statunitensi, viene quindi dimezzata determinando il valore del cosiddetto dazio compensativo imposto dagli Stati Unti nei confronti delle importazioni dal singolo Paese preso in esame. Verso la Cina, rispetto alla quale gli Stati Uniti hanno chiuso il 2024 con un disavanzo commerciale pari a 295 miliardi a fronte di un volume di importazioni di 439 miliardi, è stato imposto un dazio compensativo del 34%, ricavabile dal dimezzamento della barriera illegittima (67%) che si ottiene dividendo il deficit Usa verso la Cina per il valore complessivo delle importazioni dallo stesso ex Celeste Impero (0,67). Il quale ha risposto imponendo tariffe simmetriche sulle importazioni statunitensi, in attesa che l’Unione Europea decida il da farsi. L’amministrazione Trump manifesta insomma una spiccatissima propensione ad avvalersi dei dazi come strumento di pressione sulle controparti, sia per moltiplicare gli incentivi alle aziende straniere a trasferire le produzioni sul suolo statunitense, sia per ottenere concessioni riguardo a temi non necessariamente collegati al commercio internazionale e all’economia. Il tutto salvaguardando lo status internazionale del dollaro. Ne parliamo assieme a Guido Salerno Aletta, giornalista, saggista collaboratore di «Milano Finanza« e «Money» ed ex vicepresidente di Telecom Argentina con all’attivo incarichi istituzionali di rilievo a Palazzo Chigi e al Ministero delle Comunicazioni.
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