Nei giorni scorsi, l’amministratore delegato di Nvidia Jensen Huang ha identificato nella Repubblica Popolare Cinese il vero vincitore della competizione internazionale per il dominio dell’intelligenza artificiale. A suo avviso, la Cina sta costruendo il successo su una serie di fattori determinanti.
I 3 motivi indicati da Huang
Il primo è costituito da un costo dell’energia nettamente inferiore, cosa che rappresenta un cruciale vantaggio competitivo per un settore altamente energivoro come quello dell’intelligenza artificiale. Il secondo è rappresentato dalla presenza di un quadro normativo più permissivo rispetto a quello vigente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nell’Unione Europea, in grado di agevolare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in maniera più sostanziale. Il terzo e ultimo fattore è dato dall’approccio più “ottimista” che caratterizza la Cina rispetto all’Occidente, dove prevalgono cinismo e burocrazia.

Allo stesso tempo, Huang ha tratto un sospiro di sollievo per i risultati da record realizzati da Nvidia nel terzo trimestre dell’anno fiscale 2026, con ricavi pari a 57 miliardi di dollari, in crescita del 62% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’utile operativo ha raggiunto i 37,8 miliardi di dollari (+62% a/a), mentre l’utile netto si è attestato a 31,8 miliardi di dollari (+59%). L’utile per azione è salito a 1,30 dollari, con un aumento del 60%.
Il bilancio è quindi nettamente positivo, ma lascia inevasa la questione di fondo, costituita dalla sostenibilità della bolla dell’intelligenza artificiale. Sulla quale si è espresso da ultimo l’amministratore delegato di Google-Alphabet Sundar Pichai, secondo cui «qualora la bolla dell’intelligenza artificiale dovesse esplodere, nessuna azienda risulterà immune, nemmeno la nostra».
Anche Sam Altman di OpenAI si è espresso sul punto, riconoscendo che «il rischio per OpenAi di non assicurarsi sufficiente potenza computazionale sia superiore al pericolo di accumularne in eccesso». Ha quindi aggiunto che «se sbagliamo e non riusciamo a risolvere il problema, è giusto che falliamo: è così che funziona il capitalismo, l’economia continuerà a prosperare anche senza di noi». Dichiarazioni cristalline, che contraddicono tuttavia le affermazioni pronunciate poco prima dalla direttrice finanziaria di Open Ai Sarah Friar, la quale aveva posto esplicitamente l’accento sulla necessità di un “paracadute pubblico” per gli investimenti colossali effettuati da OpenAI in chip, data center e infrastrutture collegate.
L’amministrazione Trump ha puntato con convinzione sul settore attraverso il Progetto Stargate, che si propone di realizzare data center per una capacità complessiva di 10 gigawatt e attirare centinaia di miliardi di dollari di investimenti, integrerebbe invece Oracle, OpenAi, Microsoft e Softbank. Come spiega il comunicato stampa diffuso da SoftBank, il Progetto Stargate punta a «costruire una nuova infrastruttura di intelligenza artificiale negli Stati Uniti […] che garantirà la leadership americana nell’intelligenza artificiale, creerà centinaia di migliaia di posti di lavoro in America e genererà enormi benefici economici per il mondo intero. Questo progetto non solo sosterrà la reindustrializzazione degli Stati Uniti, ma fornirà anche una capacità strategica per proteggere la sicurezza nazionale dell’America e dei suoi alleati».
I problemi di indebitamento, opacità finanziaria e capacità di applicazione generalizzata che interessano il settore continuano tuttavia ad alimentare forti dubbi. Il fondo Thiel Macro (guidato da Peter Thiel), ha liquidato le azioni di Nvidia e ridotto drasticamente l’esposizione rispetto a Tesla. Operazioni simili sono state compiute da Fidelity, T-Rowe Price, JpMorgan Chase, SoftBank e Stanley Druckenmiller, speculatore di punta divenuto famoso per l’attacco alla sterlina condotto nel 1992 quando lavorava con George Soros.
Si è mosso anche Michael Burry, l’investitore che scommise sul crollo del settore immobiliare del 2008. A suo avviso, i profitti da capogiro realizzati dalle società operanti nel comparto dell’intelligenza artificiale si fondano su «una delle frodi più comuni dell’era moderna», ovvero la manipolazione artificiosa delle tempistiche di ammortamento. In altri termini, «per giustificare gli attuali multipli di prezzo in alcuni casi ormai sospesi nel vuoto servirebbero ricavi dieci volte superiori a quelli generati oggi dall’intelligenza artificiale. E servirebbero in tempi rapidissimi, perché il ciclo di ammortamento di data center e chip è brevissimo: tre, forse cinque anni».
Il leggendario Dan Fuss di Loomis Sayles è convinto che gran parte del credito erogato a favore dell’universo dell’intelligenza artificiale sia di natura eccessivamente speculativa: «il rischio è troppo elevato, i ricavi futuri troppo incerti, i rendimenti insufficienti». Le valutazioni formulate da Fuss si riflettono nell’aumento dei Credit Default Swap sulle principali società operanti nel settore dell’intelligenza artificiale.
Da una ricerca condotta dal Massachusetts Institute of Technology, per di più, è effettivamente emerso che il 95% dei progetti di intelligenza artificiale generativa nel mondo aziendale non ha finora prodotto alcun profitto.
Lunedì 17 novembre, la piazza finanziaria di Tokyo ha chiuso a -3,2%, andando sotto la soglia psicologica dei 50.000 punti. Hong Kong ha perso l’1,72%, Seul il 3,32%, con Samsung Electronics che ha subito una caduta del 2,9% e SK Hynix del 5,7%. Nei giorni successivi, i listini europei e Wall Street hanno seguito la stessa scia: crollo, rimbalzo sostenuto dagli stessi titoli tecnologici e nuova caduta. Le turbolenze si sono trasferite anche sul precario territorio delle criptovalute, con Bitcoin sceso sotto i 90.000 dollari dopo sette mesi di corsa, segnando un -28% nell’ultimo mese e mezzo.
Davide Martinotti

Studioso di questioni geostrategiche, specialista di mondo e cultura cinese e animatore del canale YouTube «Dazibao». Vive da tempo in Cina.
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