Nei giorni scorsi, il presidente Donald Trump si è avvalso delle prerogative previste dall’Emergency Economic Power Act per imporre dazi del 25% sulle importazioni da Canada e Messico, ed appesantire di un ulteriore 10% quelli già vigenti nei confronti della Cina. Riguardo ai due “vicini”, l’iniziativa statunitense sembra orientata a indurne i governi ad assumere un atteggiamento maggiormente collaborativo in materia di lotta all’immigrazione illegale e al traffico di sostanze stupefacenti, come certificato dalla sospensione provvisoria delle tariffe appena disposte a fronte dei primi segnali di apertura da parte di Ottawa e Città del Messico. Riguardo alla Cina, le finalità sembrano differire sostanzialmente. Tra il 2018 e il 2024, le amministrazioni Trump e Biden hanno imposto dazi del 25% su una platea di prodotti pari a 250 miliardi di dollari, del 7,5% su altre categorie merceologiche per controvalore di 120 miliardi di dollari, e del 100% su automobili a trazione elettrica, componentistica utile alla “transizione ecologica”, acciaio, alluminio e semiconduttori. Qualora le tariffe contro l’ex Celeste Impero dovessero rimanere in vigore, l’aliquota media su elettronica ed elettrodomestici passerebbe dal 6 al 18%; quella sui beni di consumo, da circa il 10 al 23%; quella su minerali, metalli e chimica, dal 20 al 30%; quella sui macchinari, dal 23 al 33%. La Cina ha reagito con la consueta prontezza, per un verso imponendo contro-tariffe del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto statunitense, e del 10% su greggio, macchinari agricoli, veicoli di grossa cilindrata e pick-up Per l’altro, introducendo pesanti restrizioni sulle esportazioni di tungsteno, tellurio, bismuto, indio e molibdeno, e avviando parallelamente una indagine antitrust su Google, che va a sommarsi a quella già in corso sul conto di Nvidia. L’amministrazione Trump sta insomma radicalizzando il processo di “militarizzazione” del commercio estero, sfruttando il mercato interno come arma sia per influenzare le decisioni politiche degli interlocutori stranieri, sia per porre le basi per una reindustrializzazione del Paese. Va infatti ricordato che gli Stati Uniti accusano un deficit strutturale delle partite corrente, che nel 2024 ha raggiunto quota 905 miliardi di dollari per effetto della combinazione tra un disavanzo nel settore merci di 1.063 miliardi e un surplus per i servizi di 278 miliardi. Verso quale scenario ci stiamo orientando? Proviamo a comprenderlo assieme ad Alessandro Volpi, saggista, docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa e collaboratore dei siti «Altraeconomia» e «Valori».
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